Sull’onda lunga dell’intervento di Mario Draghi, nelle scorse settimane si è fatto un gran parlare di debito buono (quello destinato agli investimenti e quindi in grado di generare crescita) e cattivo (destinato a finanziare le spese correnti e quindi, a tendere, insostenibile).
Le autorevoli parole dell’ex Presidente della BCE e futuro PdC hanno certamente avuto il merito di risvegliare le coscienze sul ricorso smodato al debito e soprattutto sulla necessità di utilizzare questo enorme incremento del deficit per finalità adeguate, ma in realtà non hanno aggiunto concetti innovativi a chiunque abbia mai gestito economicamente qualcosa, dal focolare domestico a un’azienda di grandi dimensioni. È ben noto che per essere sano il debito deve servire a finanziare una crescita di performance economica o di asset patrimoniali (CapEx), mentre se è teso a pagare spese ricorrenti (OpEx), o peggio ancora mance e prebende, un triste finale è già scritto.
Intendiamoci: il welfare ha per giusta natura una forte componente assistenziale che non può che essere sostenuta attraverso il combinato disposto debito-tassazione ed appare altresì chiaro che, nella contingenza, il ricorso ad un maggior indebitamento (garantito dalla BCE) è stato il modo più immediato con cui lo Stato italiano ha provato a tamponare le enormi falle create dalla pandemia.
Tuttavia, dal momento che le più accurate stime attestano che l’Italia si lascerà alle spalle l’emergenza Covid con un debito pari circa al 160% del PIL, che questo fardello graverà sulle spalle delle sempre meno numerose generazioni future, e che molti investitori hanno iniziato a domandarsi quanto lo stesso sia sostenibile (tradotto, quanto la futura performance economica del Paese ne consentirà una progressiva riduzione a livelli fisiologici), uno sforzo intellettuale ad immaginare modalità alternative per garantire all’Italia di poter usufruire di ulteriori risorse da investire nei prossimi anni, senza aggravare ulteriormente una posizione debitoria al limite dell’insostenibile, appare doveroso.
Questo perché vi sono ambiti per cui è noto a tutti che il Paese non può non investire, pena un inesorabile declino, ma che semplicemente al momento vengono intesi come finanziabili esclusivamente a debito (nazionale o sovranazionale che sia).
Nella fotografia tra necessità di spesa e risorse utilizzabili, va però rilevato che, anche a causa del timore e della sfiducia nel futuro generati dall’emergenza sanitaria, attualmente sui conti correnti italiani sono depositati 1.700 miliardi che non sono quindi utilizzati a fini produttivi e non consentono parimenti ritorni apprezzabili ai risparmiatori, con una beffarda triplice sconfitta per l’economia reale, per la remunerazione del risparmio e per le esangui finanze pubbliche.
E’ altresì probabile che un’importante fetta di queste risorse appartenga a famiglie molto patrimonializzate di cui verosimilmente almeno alcune, oltre ad auspicare rendimenti apprezzabili per il proprio capitale, avrebbero anche in animo di re-immettere nel circuito economico parte di quelle risorse onde poter “restituire” al Paese e alla proprie comunità di appartenenza opportunità che in passato queste hanno ricevuto.
Un tentativo di dirigere il risparmio privato verso l’economia reale è già stato fatto con i PIR, ma questi ultimi hanno un focus specifico sul mondo delle PMI, limitando quindi fortemente la tipologia di asset sottostante e lasciando ai gestori ampia libertà di scelta, senza quindi un chiaro indirizzo di politica industriale o di finalità di sviluppo della res publica.
Quelle risorse patrimoniali sono quindi state ad oggi stimolate con finalità identificate dai vari governi solo attraverso l’offerta di debito pubblico, mentre potrebbe essere davvero tempo di immaginare un patto “Stato-cittadini” (con questi ultimi veri soci-investitori in progetti identificati dallo Stato), attraverso una proposta che insista sull’equity, in grado di generare una virtuosa convergenza tra gli interessi dei privati e quelli dello Stato.
Trattandosi di impiego del risparmio a titolo di capitale di rischio, infatti, se ben amministrato sarebbe in grado di generare per gli investitori ritorni di gran lunga superiori al debito (a maggior ragione da quando quest’ultimo offre rendimenti sostanzialmente nulli), e conseguire obiettivi di sviluppo strategico per il Paese, senza ovviamente essere iscritto nelle obbligazioni statali (leggi debito pubblico) o quantomeno senza esborso e contabilizzazione immediata.
Queste progettualità ad ampio impatto di sviluppo, invece, oggi vengono abbondantemente finanziate da istituzioni statali (ad esempio ultimamente si è fatto un grande ricorso a CdP, ma certamente anche Invitalia è sulla stessa lunghezza d’onda), che certamente possono svolgere egregiamente quelle finalità, ma che accedendo al funding per lo più a titolo obbligazionario (depositi postali, emissioni di bond ecc…) già oggi galleggiano pericolosamente sulla linea sottile che divide il perimetro di ciò che è debito pubblico da ciò che non lo è.
Di contro è ben noto che la presenza di capitali gestiti dallo stato in business privati suscita forte diffidenza, visto il generale insuccesso storico che questo approccio ha mostrato e il rischio dell’applicazione di logiche clientelari o comunque diverse da quelle di mercato.
Sarebbe quindi necessario identificare il giusto equilibrio tra l’impulso-indirizzo-incentivo pubblico e un’ execution privata.
Si pensi, a titolo di esempio, all’effetto moltiplicatore che sarebbe suscitabile attraverso una “cartolarizzazione” di fondi che investano su asset class selezionate. I risparmiatori potrebbero sottoscrivere una proporzione variabile di quote di diversa seniority dei vari fondi, frazionando il portafoglio su tranche senior, garantite da fondi pubblici ma sostanzialmente prive di rendimento e junior, con rendimenti attesi decisamente interessanti ma interamente a rischio. In questo modo lo stato potrebbe contare su molte più risorse rispetto a quanto lo stesso si impegnerebbe a mettere “a titolo di garanzia” (quindi senza effettivamente versarli all’avvio dei diversi fondi). Ad esempio immaginando un’ipotesi di garanzia statale al 50%, al termine della durata dei fondi (quindi dopo circa un decennio, in tempo anche per toccare con mano le esternalità di sviluppo consentite dagli investimenti e magari ottenendo anche un piccolo rendimento a fronte della garanzia prestata), qualora i rendimenti degli stessi fossero in linea con il target lo Stato avrebbe colto il duplice risultato di non dover impiegare risorse e raggiungere gli obiettivi di sviluppo a suo tempo prefissati, qualora i rendimenti dei fondi fossero disastrosi lo stato dovrebbe distribuire la quota di garanzia, risarcendo per metà il capitale degli investitori, ma avendo posticipato la fuoriuscita di risorse (metà di quelle effettivamente investite) di almeno un decennio senza pregiudicare le necessità di investimento per lo sviluppo strategico.
Gli investitori invece valuterebbero i progetti sapendo che il massimo rischio sarebbe la perdita di metà capitale (profilo di gran lunga migliore dell’ equity “puro”), ma a fronte di un rendimento target molto significativo (a livello teorico illimitato).
I progetti e le finalità su cui focalizzarsi per stimolare questa felice comunione di intenti sarebbero molti e potrebbe essere utile citarne qualche esempio, senza pretesa di esclusività:
- un fondo che raccolga equity per investire in infrastrutture strategiche (che oltre a fare profitto potrebbero migliorare le condizioni di vita dei cittadini e di competitività delle nostre imprese)
- un fondo Search Fund che valorizzi giovani imprenditori e allo stesso tempo mitighi una criticità significativa che attende l’Italia nei prossimi anni, ovvero la mole di aziende che dovranno affrontare il passaggio generazionale
- un fondo di Private Equity che investa in aziende più o meno impattate dal Covid ma che presentino solidi fondamentali economici e prospettive di crescita
- un fondo di acquisto di NPLs a prezzi di mercato per dare respiro al sistema del credito e di conseguenza al tessuto imprenditoriale del territorio
- un fondo Real Estate su progetti specifici (ad esempio di Student Housing, magari con il duplice obiettivo del fare profitto e dell’attrarre studenti stranieri brillanti, per stoppare finalmente l’emorragia di cervelli ed anzi incentivare un’immigrazione di qualità)
- un fondo di Venture Capital che finanzi startup meritevoli in grado di creare occupazione stabile perché allineata alla richiesta di lavori “del futuro”
E’ chiaro che, per poter riuscire, questa ambiziosa visione dovrebbe garantire parimenti una netta perimetrazione degli asset, meccanismi di attrattività per l’appetivo di investimento (garanzia sulle tranche senior, elevato ritorno target, esclusione del capital gain dall’imponibile fiscale ecc…) e fiducia nella sua realizzazione, generabile solo con una trasparenza esemplare su finalità, tempistiche e modalità di investimento, oltre che strutturarsi con una squadra di professionisti specchiati e di piena accountability.
Tuttavia, qualora non ci si sentisse sufficientemente audaci ed ambiziosi, le stesse finalità sarebbero comunque raggiungibili attraverso strutture che richiedano meno contenuti e complessità, ad esempio attraverso fondi “di matching”, ovvero che vadano appunto a “matchare” (immettere la stessa quantità di capitale) quanto immesso nei singoli investimenti da soggetti appartenenti ad una lista di selezionati investitori internazionali, lasciando agli stessi l’onere di valutare, eseguire e gestire il singolo investimento, ferma la condivisione degli ambiti e dei progetti su cui focalizzare i fondi per raggiungere gli scopi di sviluppo.
Oltre al debito buono e a quello cattivo, insomma, è necessario immaginare altri strumenti che consentano di avere risorse da investire senza aggravare ulteriormente i disastrati conti pubblici. Si tratta di un esercizio certamente complesso (quantomeno più complesso che organizzare l’ennesima asta di emissione di titoli del debito pubblico), ma il gioco potrebbe valere la candela.