Nelle ultime settimane il dibattito pubblico ha affrontato alcuni temi apparentemente slegati tra loro, ma che presentano una matrice di riflessione comune.
La costante fuga di cervelli, la remunerazione dei dipendenti della Pubblica Amministrazione e gli aiuti (moratorie e quant’altro) che le banche dovrebbero erogare alle imprese in difficoltà nei mesi di ripresa post pandemia, infatti, non sembrano apparentemente avere molto in comune. Solo apparentemente però. A ben guardare, infatti, si tratta di ambiti sullo sfondo dei quali si stagliano riflessioni più ampie, relative a meritocrazia, diritti acquisiti, meccanismi di deterrenza e premialità.
La fuga dei cervelli è una ferita particolarmente dolorosa per il nostro Paese dal momento che l’emorragia nasce dalla percezione dei giovani di godere di opportunità professionali estremamente limitate nonostante e a prescindere da ottimi percorsi di studi. Questa percezione è in gran parte ascrivibile all’assenza di meritocrazia, ovvero dell’endemica incapacità di premiare chi merita, a prescindere dalle condizioni di partenza, rifuggendo o comunque mettendo in discussione qualsiasi concetto di diritto acquisito “per nascita o status sociale”. L’argomento è di ampia portata ed ha suscitato in tempi recenti addirittura controverse riflessioni papali, ma appare evidente che, pur senza esasperazioni, la nostra società ha bisogno di contare su criteri meritocratici per il proprio buon funzionamento, ovvero per garantire una tutela delle ambizioni e delle aspirazioni di chi vuole azionare l’ascensore sociale ed in generale di chi decide di rischiare in proprio per ottenere condizioni migliori rispetto a quelle riservategli “in partenza”. Imprenditori in primis, ma anche e soprattutto giovani generazioni, per cui è fondamentale poter guardare al futuro pensando che, al netto della causalità intrinseca nell’esistenza umana, almeno una parte del futuro riservato loro dipenda dal proprio impegno e dalla messa a frutto dei propri talenti. Un piccolo inciso va fatto sulla presunta antitesi tra talento e merito. In questa visione il talento che abbiamo “alla nascita” non corrisponde necessariamente al merito, ma influisce pesantemente sulle nostre condizioni di vita. Va tuttavia osservato che è effettivamente così, ma solo in parte, dal momento che il mondo odierno presenta un livello di competizione tale per cui, salvo rarissime eccezioni statisticamente non significative, il talento da solo non basta, se non è supportato da disciplina e abnegazione. E la somma di talento, disciplina e abnegazione di fatto costituisce il merito.
In ambito economico la visione meritocratica, ad esempio, è stata seguita negli ultimi decenni nella gestione delle imprese private. Il bonus, infatti, ha costituito una parte sempre più importante della remunerazione dei dipendenti e del Top Management ed è stato riservato esclusivamente a chi avesse conseguito buoni risultati. Va tuttavia rilevato che un’applicazione eccessivamente spinta di tale schema potrebbe indurre a comportamenti predatori ed opportunistici, per limitare i quali si è manifestata l’esigenza di una misurazione delle performance su più annualità, in modo da poter contare sulla sostenibilità delle stesse.
La necessità di premiare il merito, quindi, è anche l’assioma alla base della proposta del Ministro Brunetta circa l’introduzione di bonus anche per i dipendenti della Pubblica Amministrazione, che ci consente tuttavia di utilizzare tale settore come benchmark per poter osservare cosa succede in assenza di premialità legata alle performance.
Il settore pubblico ha infatti abbondantemente dimostrato come un lavoratore dipendente (quindi che già di partenza conta su “diritti acquisiti” a differenza di liberi professionisti ed imprenditori) sia nel migliore dei casi adagiato (e nel peggiore frustrato) dal constatare che il proprio status economico e sociale è del tutto indipendente dalle modalità con cui egli stesso svolga le proprie mansioni (in altri termini, che faccia molto bene o molto male il risultato per sé stesso è sempre identico).
Al netto infatti dei valori e dell’etica del dipendente che possono spingere a dare comunque il meglio, la certezza di non poter in alcun modo migliorare o veder peggiorare il proprio stato non induce certo a sforzi straordinari in termini di impegno e risultato.
Di contro si potrebbe ragionare sulla valenza positiva o negativa dell’introduzione simmetrica di meccanismi di deterrenza (malus, restituzione del bonus, penalità) da atteggiamenti che presuppongano scarso impegno e scarso attaccamento al lavoro. In fin dei conti tali meccanismi sono già oggi parte dei criteri di avanzamento e selezione del personale di alcuni settori professionali quali le società di consulenza strategica (“up or out”), che non a caso attraggono i profili più ambiziosi e più motivati tra i giovani lavoratori.
La riflessione sui dipendenti della Pubblica Amministrazione ci conduce quindi al terzo tema, reso drammaticamente evidente dalla pandemia Covid-19, che è legato da un filo rosso ai concetti di merito e garanzie. Sin da subito, infatti, i lavoratori del settore privato hanno lamentato una disparità nell’esito delle chiusure e delle limitazioni rispetto ai lavoratori del settore pubblico, che hanno potuto contare invece su diritti acquisiti e condizioni garantite. Invero nel prossimo futuro la questione si farà più sottile, quando le banche dovranno operare una distinzione tra le aziende “da aiutare” attraverso moratorie o linee creditizie aggiuntive e quelle da lasciare al proprio destino.
E’ infatti chiaro che in condizioni eccezionali come quelle scaturite dalla pandemia non si possa applicare semplicemente “la legge della giungla”, lasciando morire chi ne ha subito gli impatti maggiori, ma è altresì palese che i sussidi “a pioggia” protratti nel tempo sine die o gli aiuti indiscriminati non farebbero il bene della società nel lungo termine.
Partendo dal tema dei sussidi, infatti, chi scrive ha già da tempo osservato come “l’helycopter money” uccida il merito. Prendiamo ad esempio il caso di chi in passato ha avuto visione e ha investito per rendere il proprio modello di business omnichannel (dalle aziende, ai negozi, ai ristoranti). Questi soggetti si sono resi più resilienti e probabilmente ai tempi della pandemia, grazie a processi interni, di smart working, e/o di vendita digitali, sono sopravvissuti meglio di quelli che, per miopia o pigrizia, non hanno voluto percorrere tale strada (fatta di sacrifici economici, di competenze e di gite fuori porta rispetto alla propria comfort zone). Ora però emerge che chi ha sofferto è stato aiutato dall’intervento pubblico a prescindere e tanto quanto chi si è messo nelle condizioni di sopravvivere da solo grazie alla propria lungimiranza e ai propri investimenti, a questo punto in qualche modo “sviliti” dagli aiuti a pioggia. Per questo è corretto che nel prossimo futuro le banche operino una discriminazione attenta tra chi, se aiutato, può sopravvivere magari tornando a prosperare e chi, a prescindere dalla pandemia, non presentasse condizioni minime di sopravvivenza nel lungo periodo, non tanto per un sadico esercizio di distruzione creatrice ma perché un tessuto economico popolato da zombie non può rappresentare un viatico per una ripresa sostenibile.
Merito e diritti acquisiti, premialità e deterrenza, resilienza e sussidio sono temi che stanno alla radice dell’economia comportamentale. Innescano attitudini virtuose, spingono l’innovazione e l’audacia, inibiscono comportamenti opportunistici e contribuiscono al miglioramento generale delle condizioni di vita della popolazione. Vanno maneggiati con cura ma non si può sottrarsi a profonde riflessioni in proposito quando si immagina la società del futuro, che si tratti di politiche del lavoro giovanile, di aziende private o di res publica.