La transizione energetica, quella digitale, le infrastrutture, l’innovazione sono tutte partite di fondamentale importanza che l’Italia dovrà giocare nei prossimi anni.
Tuttavia ci sono una serie di buoni motivi per pensare sia necessario partire dagli investimenti in istruzione della popolazione e formazione professionale (continuativamente erogata).
Senza adeguati e prioritari investimenti su questi temi, infatti, si corre il rischio che molti degli altri vengano vanificati da piaghe sociali quali una disoccupazione con traiettorie strutturalmente crescenti e un funzionamento subottimale delle democrazie, premesse che combinate insieme costituiscono un humus già visto in passato con conseguenze catastrofiche, quali ad esempio i grandi regimi totalitari del ‘900.
Partiamo dal fronte occupazionale. Al momento il tasso di disoccupazione generale in Italia sfiora il 10%, con il picco rappresentato dalla disoccupazione giovanile che tocca il 30%. Il dato però, oltre che drammatico, appare beffardo se confrontato con il problema dello Skill Mismatch (già ben tracciato su queste pagine qualche settimana fa da un’analisi di Tortuga), ovvero il numero crescente di aziende che, nonostante l’elevatissimo tasso di disoccupazione, non riescono a trovare candidati per specifiche mansioni, oggigiorno ampiamente ricercate, quali alcune di quelle ad indirizzo ingegneristico o elettronico/elettrotecnico, con conseguente carenza per il recruiting in ricerca & sviluppo, servizi informativi o meccatronica dove sei aziende su dieci non trovano le figure professionali ricercate.
Varare politiche industriali lungimiranti, scegliendo quindi i settori su cui spingere la scelta formativa dei ragazzi è fondamentale per non trovarsi migliaia di laureati in discipline che non permettono un accesso al mercato del lavoro. E’ certamente vero che Steve Jobs ha studiato calligrafica e che un’eccellenza intellettuale laureata in filosofia saprà sicuramente procurarsi un buon posto di lavoro, tuttavia bisogna impostare il ragionamento consapevoli che non tutti sono Jobs e l’eccellenza non è la media. Se si intende quindi consentire al maggior numero di ragazzi possibile di essere rapidamente occupati è necessario indirizzarli verso percorsi di studi coerenti con le aspettative di necessità del mercato del lavoro.
Questo significa anche provare a evolvere il set di conoscenze che vanno fornite ai ragazzi, iniziando ad domandarsi con la dovuta onestà intellettuale se sia corretto che in un liceo scientifico il latino abbia nettamente più importanza di materie come l’informatica o la fisica.
Inoltre vi è un aspetto ancora più rilevante, perché a durata decisamente più lunga ed impattante, rispetto al mero momento di ingresso nel mondo del lavoro.
Mi riferisco alla formazione continuativa.
Ormai molti futurologi, a partire da Youval Noah Harari, hanno teorizzato una società con necessità occupazionali e giuslavoristiche talmente liquide da comportare due fenomeni di natura strutturale:
- L’impossibilità di studiare ed acquisire competenze che non siano obsolete o quasi già prima dell’ingresso nel mondo del lavoro, giacchè oggi è di fatto impossibile prevedere quali siano i lavori più ricercati una decina di anni più tardi
- L’accettazione ob torto collo di una carriera che comporti numerosi cambi di mansione (non solo di datore di lavoro) nel corso della vita lavorativa, con la conseguente necessità di continuare ad acquisire nuove competenze, senza smettere mai di formarsi.
Sul secondo punto è evidente che, per quanto il mercato del lavoro sia liquido, non è pensabile che le persone costrette a cambiare lavoro non vivano periodi di disoccupazione fisiologica tra un impiego e l’altro, e che quindi forme di welfare ed ammortizzatori sociali debbano diventare strutturali (reddito universale, di cittadinanza e tutte le varie declinazioni più o meno intelligenti).
Tuttavia appare altresì evidente che nessuna società possa permettersi di sostenere ad libitum tassi di disoccupazione troppo elevati che si protraggano per periodi di tempo estesi, avendo quindi la necessità di continuare a formare le persone lungo tutto l’arco della vita lavorativa e permettere alle stesse di essere continuamente riciclabili secondo le esigenze del mercato del lavoro.
La seconda sfera di criticità sopra menzionata è quella relativa all’impatto sul funzionamento delle democrazie determinato da una scarsa istruzione della popolazione.
Recentemente su media e social network, si è registrato un coro di protesta e di “vesti stracciate” a causa del fatto che negli ultimi 30 anni ben 6 Presidenti del Consiglio italiani non fossero espressione del voto popolare ma di fantomatici “poteri forti”.
Tuttavia il fenomeno non deve stupire più di tanto, e rischia invece di assumere una connotazione strutturale. Il vulnus di base, infatti, è l’inadeguata preparazione di buona parte dell’elettorato su grandi temi che impattano sulla nostra vita, fino a stabilirne le regole.
Il livello di alfabetizzazione finanziaria degli italiani, ad esempio, è costantemente tra gli ultimi a livello globale.
Qualche anno fa, ad esempio, una persona a me cara mi ha chiesto cosa fosse il tanto nominato spread e un’altra mi ha confessato di aver votato per il politico più bello, perché il suo sorriso smagliante dava rassicurazione rispetto al profilo più austero del concorrente.
E’ evidente che se chi è chiamato ad esprimere la propria preferenza elettorale non possiede le conoscenze e gli strumenti per formarsi un’opinione su come le diverse proposte politiche possano influire sulla società futura il suo voto è una pericolosissima roulette russa.
Non si capisce, infatti, perché non sia consentito di operare a cuore aperto senza una laurea in cardiochirurgia o di guidare un’automobile senza aver ottenuto regolare patente, mentre l’esercizio di voto che può avere impatti altrettanto determinanti sulla vita dei cittadini sia consentito anche a chi non ha la minima idea delle tematiche su cui sta esprimendo una scelta e si affidi quindi a parametri di valutazione totalmente inadeguati.
O si comincia a ragionare di “patente di voto”, conseguente a una formazione di base che venga efficacemente erogata di diritto a tutta la base elettorale, oppure è bene rassegnarsi ad una scelta permanente tra governi “imposti dall’alto” e governi incompetenti nel migliore dei casi, dittatoriali nel peggiore.
Per realizzare riforme di istruzione e formazione in grado di rispondere alle sfide descritte qui a titolo di esempio non bastano le risorse finanziarie.
Servono una presa d’atto della loro priorità, una visione chiara del futuro e l’audacia per superare i tabù che ci legano a modelli che potevano funzionare cinquant’anni fa ma certamente inadeguati al mondo attuale e ancor di più a quello del futuro.