Nei giorni scorsi mi è capitato di leggere due testi il cui contenuto ha stimolato l’opportunità di alcune considerazioni sull’impatto che la propensione al lavoro e all’imprenditorialità in Italia avranno sul nostro futuro.
Il primo dei due è un passaggio di uno dei migliori libri che ho letto di recente, ovvero “La società signorile di massa” di Luca Ricolfi. Senza volerne spoilerare il contenuto mi limito a riportare che, nell’ambito di un quadro ampio e ben argomentato, la teoria di fondo è che in Italia il concomitante verificarsi di tre condizioni sta facendo sì che la società si sia adagiata al pensiero che è del tutto normale, o quantomeno razionalmente tollerabile, che vi sia una fetta maggiore della popolazione che non lavora rispetto a quella che lavora, pur in presenza di un atteggiamento consumistico di massa in aumento, ovvero in definitiva una costante estrazione di ricchezza anziché di produzione di ricchezza.
Uno dei concetti espressi nelle ultime pagine del libro si spinge a teorizzare che il combinato disposto dell’impostazione iper-individualistica della nostra società, garantita da una governance liberaldemocratica, e del benessere economico raggiunto tra gli anni ’50 e gli anni ’90 abbia generato un atteggiamento solipsistico anche rispetto alla sfera professionale e di conseguenza un’incapacità di fondo di accettare la disciplina e la gerarchia che posizioni subordinate comportano (con i pregi ed i difetti di questo tipo di status), con la derivata che a questo vada ascritto il significativo aumento del lavoro autonomo su quello dipendente (tralasciando la triste realtà del non lavoro “per scelta” rispetto a quello autonomo, dipendente o di qualsiasi altra tipologia).
Negli stessi giorni in cui ultimavo la lettura di quel testo, il Sole24h ha riportato la notizia che nel 2022 l’Italia ha ritoccato il proprio record di startup innovative, che ha raggiunto la ragguardevole cifra di poco meno di 15.000 realtà, quando alla fine del 2019 le stesse erano meno di 11.000.
Riflettendo su questo dato non ho potuto fare a meno di soffermarmi su un fenomeno che, seppur solo a livello empirico e non analitico, ho potuto toccare con mano negli ultimi dieci anni, ovvero da quando opero nel settore delle asset class alternative ed in particolare del Venture Capital.
Mi riferisco al fatto che all’inizio degli anni duemila e comunque fino alla grande recessione post 2007, in una qualsiasi università italiana di prestigio, rivolgendo ai laureandi la domanda “Che mestiere vorreste andare a fare?” ci si sarebbe sentiti rispondere soprattutto con riferimenti a carriere nell’investment banking o nelle società di consulenza, mentre quasi nessuno -ad eccezione di situazioni per lo più di discendenza famigliare- avrebbe risposto l”imprenditore”. A valle della grande recessione, invece, a fronte di un drastico calo di preferenza per le prime, l’aspirazione alla seconda tipologia di percorso professionale era aumentata a dismisura. Mi son chiesto spesso a cosa fosse dovuta questa migrazione di consenso e mi sono dato soprattutto le seguenti tre spiegazioni:
- ad un effetto “tanto peggio tanto meglio”, ovvero la presa di consapevolezza che, a valle della crisi, le carriere più premianti in quello che era il vecchio mondo tradizionale avevano ora meno appeal da offrire (segnatamente soldi e praterie di crescita) e a questo punto, se si trattava di faticare per il successo professionale, tanto valeva faticare per sé stessi
- ad un cambiamento dei modelli di riferimento, passati dalla figura di Gordon Gekko (Wall Street è del 1987) a figure come Gates, Jobs, Zuckerberg, Musk, ovvero grandi imprenditori che hanno trovato crescente celebrazione dalla fine degli anni ’90 in avanti con vette inesplorate dopo il 2010
- ad una maggiore disponibilità di capitali di ventura che consentivano anche a chi non aveva un’estrazione famigliare di natura imprenditoriale di tentare la strada professionale più audace
A prescindere dalla natura empirica della mia intuizione e dalle spiegazioni che mi sono dato al riguardo, comunque, il dato fatto registrare quest’anno dalle startup innovative italiane rappresenta un’onda lunga che in qualche modo certifica la mia intuizione.
Epperò questo fenomeno non può non essere incrociato con un altro, parimenti rilevante a livello quantitativo e inquietante nei suoi rivolti, citato anche nel libro di Ricolfi, ovvero quel 25% di NEET tra i 15 e i 34 anni, cioè più di 3 milioni di giovani individui che non studiano e non lavorano.
E allora come si leggono questi dati apparentemente polarizzati ed in antitesi? C’è un fil rouge di coerenza tra il rigetto della carriera da dipendente (ed ahimè spesso in generale del lavoro) e questa aumentata propensione all’imprenditorialità?
Forse non sono così in contrapposizione come sembrano. A mio avviso, infatti, essi sono il risultato dello stesso ciclo, semplicemente nel caso dei NEET della fine di un ciclo e nel caso delle startup innovative dell’inizio di quello successivo, che inevitabilmente si inquinano a vicenda nella fase di transizione.
I primi, infatti, sono il risultato del declino della produttività contestuale al raggiungimento dell’opulenza, quindi alla manifestazione di una scarsa propensione al rischio, allo sforzo e al sacrificio che la società economicamente matura subisce quando appunto completa la sua fase di crescita e plateau.
Le seconde invece sono già il prodotto del “reset”, ovvero di quanto ciascuna società è costretta a tentare di fare una volta che ha visto il proprio benessere declinare quasi completamente a valle di un ciclo di decadimento economico.
Sostanzialmente io penso che, non essendo sostenibile una società che estrae ricchezza senza produrne, ovvero limitandosi a consumare il benessere generato nelle fasi di crescita precedenti, in Italia si arriverà relativamente presto ad un punto in cui la ricchezza da estrarre sarà esaurita ed il problema della crescita economica tornerà ad essere avvertito da tutta la popolazione, rimettendo in modo il desiderio di lavorare, rischiare e sacrificarsi che negli ultimi anni è venuto meno. Le startup innovative, come testimonianza suprema dell’imprenditorialità giovanile, sono l’avanguardia del nuovo, non tanto e non solo inteso come degli agenti di innovazione del modo in cui ordiniamo un pasto o sottoscrivamo un asset, bensì come l’espressione dell’inizio del rinnovamento, ovvero del nuovo ciclo di crescita economica che auspicabilmente deve seguire quello che con l’avvento della società signorile di massa si è esaurito.
Questi fenomeni si sovrappongono e questo da un lato è naturale (l’evoluzione umana non è mai a compartimenti stagni) e dall’altro piuttosto rassicurante perché se è vero che i NEET ed i presupposti teorizzati da Ricolfi non fanno intravedere un orizzonte luminoso è altresì vero che i quasi 15.000 team di imprenditori innovativi che sono nati in questi ultimi anni ci consentono di coltivare la speranza che nel Paese dopo la fine ci sia un nuovo inizio, che al termine della discesa ardita ci sia una risalita.