L’innovazione è giusta a prescindere? La domanda è tutt’altro che retorica e la risposta tutt’altro che tautologica. L’idea di fondo è quella di provare a capire se l’innovazione sia un mantra da portare avanti anche nelle situazione in cui la somma delle esternalità negative generate dalla stessa dovesse essere superiore alla somma delle esternalità positive.
Innanzitutto è necessario ammettere che una situazione di saldo “negativo” determinata dall’introduzione di nuovi prodotti, processi o sistemi può esistere. Esempio fulgido, a mio avviso, è quello dei social network, per cui gli effetti positivi generati dalla loro introduzione (oltre ai profitti generati per aziende proprietarie e pochissimi altri attori sinceramente faccio fatica a vederne: inizialmente ci avevano spacciato che l’idea era ritrovare vecchie conoscenze perse nei meandri del tempo, ma per far questo basterebbe una sorta di rubrica digitale statica online e i sistemi di messaggeria) sono decisamente inferiori a quelli negativi (depressione negli adolescenti, Fomo, morti causate da challenge estreme, narcisismo patologico, bullizzazione dei più fragili e potrei andare avanti a lungo nell’elenco).
A ulteriore conferma del fatto che l’innovazione non deve per forza essere intesa con accezione positiva basta prendere la definizione del termine (“introduzione di sistemi e criteri nuovi”) che appare invero assolutamente neutrale.
Una volta ammesso che un’innovazione non è per forza garanzia di saldo positivo degli effetti che ne conseguono, va fatto un passo avanti nel ragionamento e occorre tornare alla domanda originaria: è giusto consentire l’introduzione acritica e spesso non regolamentata di ogni innovazione sul mercato, a prescindere dal saldo prodotto dai suoi effetti?
La domanda calza a pennello nell’attuale dibattito su ChatGPT e sull’intelligenza artificiale.
Complice l’ecosistema in cui è immerso chi fa il mio mestiere, nelle ultime settimane mi sono sentito spesso dire che “tanto non puoi fermare l’innovazione” o che “sarebbe un errore macroscopico restare indietro o non sfruttare le opportunità/comodità portate dall’innovazione”.
Eppure, ho come la sensazione che chi porta avanti questi argomenti non sia necessariamente interessato al “delta impatto” generato da questo tipo di dinamica, bensì più interessato ai vantaggi economici e ai profitti (per alcuni…pochi) che possono crearsi.
Di contro va rilevato che non esiste un reale dibattito che provi a pesare i pros e i cons di un’introduzione massiccia di questo tipo di tecnologia, fatto salvo il dibattito politico che ha tempi completamente inadeguati a gestire la portata del fenomeno (l’UE ha iniziato a discutere di regolamentazione dell’intelligenza artificiale nel 2017 e dopo sei anni non ha partorito legge alcuna, mentre ovviamente in termini tecnologici questi sei anni sono stati un’era geologica).
Anche i lavori degli analisti economici che analizzano il fenomeno peccano spesso di superficialità. Un report recente di Goldman Sachs, letto in filigrana, sembra avvalorare la tesi delle sottovalutazione di una situazione che crea opportunità di guadagno per pochi a fronte di possibili criticità per molti. Questo report parla di un aumento del PIL del 7% generato dall’introduzione delle tecnologie di intelligenza artificiale a fronte però di 300 milioni di posti di lavoro persi tra USA ed Europa (sicuramente rimpiazzabili grazie alla nascita di nuove professioni, ma non certo nel breve periodo e non certo per chi, per età anagrafica, possibilità economiche o scolarizzazione, può sperare in un rapido reskill). Il problema è che il parametro relativo all’aumento del PIL sembra un po’ la media del pollo: se prima c’erano 100 polli con cui mangiavano 100 persone e dopo ce ne sono 150 con cui mangiano 50 persone il PIL in effetti è aumentato di 50 polli ma il benessere complessivo no (e questo esempio risulta altresì attuale in un contesto che ha visto la polarizzazione della ricchezza aumentare significativamente negli ultimi trent’anni).
La verità a mio avviso è che ci si smarcasse un attimo dall’utilizzo delle opportunità di profitto (shareholder capitalism) come lente di lettura e si analizzasse lo scenario derivante dalle varie innovazioni con l’ottica del benessere distribuito per la comunità (stakeholder capitalism), le argomentazioni a favore di una visione completamente liberistica delle innovazioni ne uscirebbero molto ridimensionate.
D’altra parte esistono alcuni esempi evidenti di innovazioni che vengano impedite, ostracizzate, rallentante ma, a parte quelle nel territorio dell’illegalità, si tratta guardacaso di innovazioni che non hanno come obiettivo la creazione di un profitto addizionale.
Si pensi ad esempio alla necessità di innovare la nostra costituzione, scritta per disciplinare il vivere comunitario di un mondo completamente diverso da quello attuale.
O si pensi alla variazione di regole sportive (numero di chiamate VAR a disposizione degli allenatori nel calcio o revisione del fallo di sfondamento nel basket, per citare alcune tra le più attuali), che in ossequio al Manzoniano “adelante con judicio”, richiedono anni e anni per essere pensate, ponderate, testate ed infine introdotte.
Perché dovremmo accettare che una modifica costituzionale richieda anni di discussione prima di essere applicata ed una nuova tecnologia in grado di impattare la vita di milioni di persone possa essere immessa sul mercato liberamente senza un seppur minimo dibattito?
Di mestiere faccio il venture capitalist, l’innovazione è l’ingrediente principale di quello che valuto ogni giorno e una visione di stato dirigista che la blocca o la disincentiva è l’ultima cosa che mi auguro. Ma questo non mi impedisce di ammettere serenamente che le innovazioni che potenzialmente possono stravolgere la vita di milioni di persone e aumentare radicalmente la polarizzazione della ricchezza meritino almeno un dibattito onesto, rapido, efficace che consenta una regolamentazione che viaggi alla stessa velocità.