La recente “rimozione” del Ministero dell’innovazione tecnologia e della transizione digitale, passata invero sotto un colpevole silenzio, sembra andare esattamente in senso contrario rispetto a quanto un Paese come l’Italia dovrebbe fare per provare ad arrestare il declino economico che ormai lo imprigiona da un trentennio.
Per comprenderne il perchè vale la pena fare qualche considerazione sui cicli di crescita, espansione, plateau e declino che i Paesi (siano essi grandi imperi o territori più circostritti) si trovano storicamente a vivere.
Come dimostrano numerosi studi e testi, da Kennedy a Ray Dalio, da secoli, infatti, ogni grande potenza mondiale affronta cicli in cui istruzione, innovazione e mercato dei capitali consentono fasi di espansione e di ricchezza, caratterizzati da basso debito pubblico e sostenuta crescita economica. Queste caratteristiche, proprie di ciò che potremmo definire “benessere”, però, producono delle distorsioni nel comportamento degli attori del tessuto socio economico, riducendo la propensione al rischio e il ricorso al debito pubblico per finanziare appunto il proprio benessere in modo più che proporzionale rispetto alla ricchezza prodotta. E’ in questo momento che si avvia il declino del Paese, che si troverà mano a mano sempre meno produttivo e sempre più indebitato, vedendo quindi peggiorare le condizioni di vita al proprio interno a livello generale, attraverso una sempre maggior polarizzazione della ricchezza dove una quota sempre minore di ricchissimi ne deterrà sempre di più, mentre una crescente moltitudine di poveri vivrà con sempre meno risorse. Questa traiettoria sfocia quasi sempre in eventi di “reset”, siano essi guerre, rivoluzioni armate o politiche, verso forme di sovranismo, nazionalismo e populismo che sono alla base dei regimi e dei conflitti su scala globale.
Purtroppo, quanto appena descritto, è esattamente ciò che sta accadendo in Europa ed in misura minore negli Stati Uniti, entrambi squassati negli anni recenti da fenomeni tellurici che hanno minato i sistemi democratici alle loro fondamenta. E’ emblematico in questo senso osservare il risultato delle elezioni degli ultimi anni in Italia, Uk, Svezia, US e più in generale osservare come ormai la democrazia stia vacillando tra attacchi al proprio interno portati dai movimenti populisti e dall’esterno, portati dalle autocrazie mondiali che scommettono sull’incapacità delle democrazie di rimuovere alla base le cause di questa crisi (come detto, scaturite da fasi in cui il livello di vita va finanziato a debito perchè la crescita economica non riesce a manterne il passo, ma allo stesso tempo nessuno riesce a rinunciare al benessere e dove quindi il capitale si trasforma in rendita ed la remunerazione del avoro vive fasi di stallo decennale, con una conseguente polarizzazione della disponibilità di risorse).
Come detto, un’attenta analisi delle cause alla radice del benessere consente di vedere in modo abbastanza nitido che la crescita economica dipende da qualirà dell’istruzione, ingegno, etica del lavoro e sistemi economici in grado di trasformare le idee in rendimento.
I cicli economici, infatti, hanno visto caratterizzare le proprie fasi di crescita da ecosistemi in cui persone con elevato grado di istruzione, certe di potersi muovere in una società civile, hanno prodotto innovazioni, hanno ricevuto finanziamenti attraverso i quali queste innovazioni sono state trasformate in produzione e allocazione delle risorse che a loro volta hanno consentito la generazione di profitto.
Nell’economia dell’’800 e della prima metà del ‘900 la -relativamente bassa- velocità tecnologica consentiva che questi cicli potessero svilupparsi con crescite lineari, mentre tra la seconda metà del ‘900 ed il nuovo millennio la velocità esponenziale della tecnologia (riassumibile in sintesi nella legge di Moore) hanno accelerato in modo impressionante le fasi di crescita e conseguente declino delle singole entità (imprese), obbligando i sistemi che le contengono (Stati) a continuare a produrre nuove imprese di successo. Da qui il fenomeno crescente delle startup e del venture capital che è alla base della loro crescita e dei tessuti sociali più prosperi.
Se facciamo un passo indietro e definiamo cos’è una startup, fa subito sorridere la frase che ogni tanto si sente dire in giro, soprattutto da imprenditori “analogici”: “anche io quando sono partito ero una startup” riferendosi magari ad un’impresa produttrice di tondini di ferro.
Una startup, per essere tale, è un’impresa caratterizzata da un grado di innovazione (di prodotto, di servizio o di modello di business), tale da consentirle una crescita esponenziale (scalabilità) in un periodo di tempo compresso. Tipico esempio di ciò sono le imprese digitali dietro le app, per le quali una volta prodotta l’app 1 dowload costa praticamente come 1.000.000 di dowload.
Questo tipo di imprese accorpa un rischio di fallibilità estremamente elevato perchè andare molto veloci nel fare qualcosa che nessuno ha mai fatto prima è certamente attività dal profilo di rischio elevato. Per questo si tratta di realtà che vengono finanziate dal Venture Capital, asset class che punta a ritorni molto elevati perchè accetta rischi altrettanto elevati.
E cos’altro sono le startup finanziate dal Venture Capital se non “persone con elevato grado di istruzione, certe di potersi muovere in una società civile, hanno prodotto innovazioni, hanno ricevuto finanziamenti attraverso i quali queste innovazioni sono state trasformate in produzione e allocazione delle risorse che a loro volta hanno consentito la generazione di profitto”?
Se a questi semplici passaggi deduttivi, legati molto alla pianificazione su come incentivare l’innovazione, si aggiunge che la maggior accelerazione ai sistemi produttivi dell’ultimo trentennio (fase non ancora completata, soprattutto in Italia) è arrivata dalla transizione digitale, si capisce facilmente perchè il declassamento della delega a questi temi da appannaggio di un ministero dedicato a quello di un ministero necessariamente più generalista, non sia una buona notizia per le speranze del Paese di arrestare il proprio declino economico.