La recente presa di posizione italiana, sia sul fronte privacy che di filosofia generale di utilizzo dell’intelligenza artificiale, culminata con il blocco di ChatGPT sta facendo molto discutere.
So che rispetto alla maggioranza dei professionisti che lavorano nel mio settore vado controcorrente, ma a mio avviso, prescindendo dalle modalità tecniche di cui non mi interessa molto discutere, un “rallentamento” temporaneo di sviluppo e utilizzo di questa tecnologia è quantomeno opportuno.
Questo non perché non riconosca la validità del progresso generato dalla tecnologia (per anni nella mia bio professionale ho indicato “affascinato dagli impatti che la tecnologia ha sul modo di vivere delle persone”), né perché disconosco i razionali e le virtù della filosofia Schumpeteriana di “distruzione creativa”.
Semplicemente perché nei tempi recenti abbiamo abbondantemente dimostrato che non siamo in grado di reggere il passo e la velocità della necessità di regolamentare i fenomeni tecnologici e soprattutto le loro influenze sociali.
Basti pensare agli effetti pervasivi dei social network sulla psiche di adolescenti (FOMO, cyberbullismo, challenge estreme) o sulle drammatiche e talvolta fatali distorsioni che le fake news hanno avuto di recente sulle democrazie.
Ancora oggi dopo qualche decennio dalla diffusione di internet, a differenza che nel mondo tangibile, se apostrofo qualcuno con un insulto digitale salvo rarissimi casi resto impunito e più in generale nel mondo virtuale molti si sentono autorizzati a tenere comportamenti che nel mondo reale non si sognerebbero nemmeno di abbozzare (causa la deterrenza della punizione, ad esempio).
Ancora oggi se diffondo una notizia palesemente falsa via web (e magari qualcuno alla fine della catena muore) non esiste alcun organo che controlli e soprattutto che me ne chieda conto.
Pensiamo alla facilità di creazione di deep fake o alla caduta di efficacia verticale e repentina dei nostri sistemi scolastici a causa della facile e comoda sostituzione della creatività degli studenti con quella di queste tecnologie generative. L’accesso massivo all’intelligenza artificiale non può che esasperare i problemi sopra descritti e creare insidie ancora più complesse, per cui pensare di introdurre una regolamentazione all’utilizzo della stessa solo in futuro, dopo la sua completa diffusione su scala globale, significherebbe il rischio di chiudere la stalla quando i buoni sono ampiamente fuggiti. Sembra invece che rispetto all’avvento del web sia stata appresa la lezione: costruiamo un’architettura di utilizzo “sano”, legale, dotato di sanzioni e deterrenza e poi avvaliamoci con maggior serenità di una tecnologia che può darci grandissimi benefici. Non lasciamo che questa possa essere utilizzata liberamente con scopi illegali e delinquenziali senza almeno esserci attrezzati per contenere gli stessi tramite rilevazione, moderazione, sanzione.
In chiusura voglio soffermarmi su due delle principali obiezioni che si sentono a proposito della misura adottata dall’Italia.
La prima delle due è relativa all’impossibilità di fermare la tecnologia per evitare la distruzione di molti posti di lavoro. Non si tratta di fermarla ma di calmierarne la velocità (correzione di governance a meccanismo di libero mercato, a volte necessaria per evitare i fallimenti di quest’ultimo), ovvero ciò che la politica dovrebbe sempre fare per garantire che i passaggi non siano eccessivamente traumatici e comportino macelleria sociale, con tutte le conseguenze del caso in termini di tenuta dei modelli democratici, di conflittualità su scala locale e globale ecc…
In fin dei conti, ad esempio, cosa pensate che abbiano fatto le banche riguardo l’adozione dei canali digitali? Era chiaro a tutte già 15 anni fa che un rapido spostamento verso modelli di interazione con la clientela massicciamente digitali avrebbe consentito enormi risparmi e benefici in termini di P&L, ma lo stesso hanno utilizzato una velocità di switch moderata, proprio per evitare movimenti tellurici a livello sociale.
La seconda obiezione è puramente tecnica e si sostanzia nel dire che per aggirare il divieto italiano basta dotarsi di un VPN o altri escamotage tecnologici. Forse chi obietta ciò dimentica innanzitutto che la stragrande maggioranza delle persone, comprese quelle che possono fare un uso distorto, ancorché magari inconsapevole, di questa tecnologia sono “uomini della strada” senza alcuna preparazione specifica dal punto di vista tecnico e secondariamente che qualcuno deve iniziare a porre, anche provocatoriamente, questo tipo di questioni, nella speranza di stimolare il dibattito e la conseguente adozione di politiche di regolamentazione adeguate proprio con l’obiettivo di dotarsene al più presto e a quel punto sfruttare al meglio il potenziale tecnologico.
Non si tratta di essere retrogradi, di tornare al basso medioevo o di perseguire obiettivi luddisti. Si tratta semplicemente di darsi delle regole prima di iniziare a giocare, cosa che è la base di qualsiasi sport.